Static Daydream, David Gilmour, Joan Shelley

di RSK

STATIC DAYDREAM - static daydream

Normalmente quando si recensisce la fatica di un gruppo nuovo si cerca sempre di dare dei punti di riferimento generici che possano immediatamente e chiaramente far capire al lettore che cosa ascolteranno. Con gli Static Daydream il compito è terribilmente facile: li potremmo infatti definire come la perfetta cover band dei Jesus and Mary Chain, ipermenzionatissimo gruppo britannico che a questo punto sembra definire riduttivo segnalare come semplice oggetto di culto. No! Il gruppo di Glasgow, capitanato dai fratelli Reid e ufficialmente ancora in attività, è, scopro con stupore, un vero e proprio genere musicale. 46 minuti di punk noise e shoegaze sapientemente mescolati dalla coppia Paul Baker - Jamie Casey che giocano con la doppia voce rendendo felici chi non si stancherebbe mai di ascoltare e riascoltare il capolavoro Psychocandy in tutte le salse. Unica variazione sul tema: Until You're Mine che dopo un inizio solido si liquefà in una ballata quasi elettronica che non dispiacerebbe a Robert Smith



 DAVID GILMOUR - rattle that lock 

Secondo voi, è più facile parlarne male o parlarne bene? Nessuna delle due. È più facile non parlarne proprio, perché così si evita di prendere parte alle polemiche o meglio al tiro al piccione che ha scatenato l'uscita del disco di un mito della musica 60-70 che in realtà è sempre stato giudicato per meriti altrui. Oddio non sarebbe neanche giusto parlare di polemiche ma semplicemente di stroncature senza appelli che hanno portato a definire Rattle That Lock come, nella migliore delle ipotesi una grigia scopiazzatura di certo rock anni '80 alla Gilmour, carriera solista, o una grigissima reiterazione di accordi di chitarra di certo progressive rock anni '70 alla Pink Floyd. In effetti pensandoci meglio è proprio strano che nel 2015 David Gilmour senta il bisogno di fare un disco che suoni come una via di mezzo tra un The Division Bell meno prodotto e un About Face rimasterizzato; si è strano piuttosto mi sarei aspettato un disco di jodel o di canti gregoriani. Che delusione! Certo si sa anche i miti sono umani, come tutti noi e a volte sbagliano, ma allora perché sto qui a parlarne? Perché ho scelto di parlare di questo disco e non di quello di Keith Richards, che pure ha fatto "disperatamente" parlare di sé con le solite bislacche e furbette dichiarazioni di lancio? Beh, ma perché alla fine io ascolto un po' quel cazzo che mi pare e se mi va di ascoltare l'ultima fatica di questo vecchio "babbione" di chitarrista...non vedo perché no. Vi dirò è anche piacevole questo mix di sciallezza e rock chitarristico terribilmente retrò, talmente piacevole che mi vien voglia di riascoltarlo.


JOAN SHELLEY - Over and Even

C'era una volta il folk da cameretta, quello un po' alternativo che veniva dalle badlands scozzesi, inscenato da gruppi dai nomi fantasiosi costituiti da personaggi improbabili che suonavano gli strumenti più stravaganti. Erano i tempi in cui il folk andava di moda ma non era il folk classico, era un'altra musica.
Joan Shelley invece è una virtuosa folk singer del midwest, viene dal Kentucky, e con Over and Even è al terzo album. Voce bellissima e leggiadra la sua che rapisce dall'inizio alla fine con questo fantastico disco che mantiene le aspettative del titolo e a tratti lascia a bocca aperta ma sicuramente sempre a cuor contento. Pensate al meglio della tradizione country folk americana, da Joni Mitchell a Linda Thompson e immaginatevi di essere condotti per mano attraverso il sentiero dei Monti Appalachi. Questo e molto di più può offrirvi Joan Shelley sempre che amiate il genere. Un disco di cui c'è poco da dire e molto da ascoltare. Spegnete la luce, accendete i sogni e...play.

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